giovedì 22 ottobre 2009

Preghiera di guarigione


III Riunione: La preghiera di guarigione

Una forma ricorrente di preghiera di intercessione è quella legata alla guarigione, intesa qui sia nel senso propriamente fisico che in quello spirituale (od esistenziale). Già nell’Antico Testamento, Dio appare come Colui che guarisce, come il medico che risana. Si legge nell’Esodo:
26 Disse: «Se tu ascolterai la voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t'infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitte agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!» (Es 15, 26)

E’ subito da rilevare che:

1) il Nome del Signore è pressoché un tutt’uno con il suo volere di guarire l’uomo, quasi che la guarigione sia proprio la modalità di riconoscimento della sua presenza. “Io sono il Signore, colui che ti guarisce”. Tale affermazione diviene roccia incrollabile, poiché rivela pienamente la volontà di Dio su di noi: egli non vuole la nostra sofferenza ed il nostro dolore. Egli vuole invece la vita, la gioia, la nostra salvezza. Per tale motivo il suo modo di presentarsi è legato proprio al suo operare “Sono colui che ti guarisce”;

2) la guarigione viene collegata con l’ascolto della Parola. E’ la Parola che guarisce, non qualche forma di magia o di potere. Più l’uomo si accosta a Dio ed ascolta il suo volere, più viene guarito dalle sue infermità e può intercedere perché gli altri siano guariti.
Quella di guarigione è allora una preghiera fondamentale, poiché manifesta la potenza di Dio al mondo, la sua volontà d’amore su ognuno di noi. In questo senso l’azione di Gesù ed il suo ministero vanno proprio a manifestare questa realtà.

Si tenga presente però, che primariamente è necessario avere coscienza della propria infermità. Al cieco che si presenta dinanzi a lui Gesù chiede “Cosa vuoi che io ti faccia?” (Mc 10,51). Una domanda, questa, apparentemente inutile. Cosa è, per paradosso, più visibile di una cecità? Invece Gesù chiede, egli desidera che il malato abbia coscienza della sua infermità, della sua malattia, non fugga da essa, ma la presenti. La domanda “Cosa vuoi che io ti faccia” è spiazzante per l’uomo, che tende a pretendere da Dio la guarigione, senza manifestargli la sua malattia, quasi che Dio la vedesse e che per questo dovrebbe automaticamente soccorrerlo. Al contrario il movimento di Dio è quello proprio dell’amore, che si china a chiedere, a prender parte al dolore, attendendo che l’uomo chieda quello che desidera.

Alla richiesta di Gesù, ecco che cosa avviene:
E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada (Mc 10,51-52)
Il cieco risponde in ciò che è suo, risponde con la propria verità. Non si adira per la domanda postagli, ma al contrario risponde con il suo desiderio. Il desiderio è di per sé nulla, ma è il luogo proprio dell’azione di Dio, poiché dilata il cuore dell’uomo a misure inimmaginabili. Un attenzione particolare va posta però sulla risposta che Gesù dà al cieco. Non gli dice, infatti “Vedi”, ma “Va, la tua fede ti ha salvato”. Anche la preghiera di guarigione, come quella di intercessione è un atto di fede, profonda, nella volontà misericordiosa di Dio.


Normalmente la visione che l’uomo conduce in se stesso di Lui è quella negativa, fondata sull’ascolto del serpente: Dio è invidioso dell’uomo, non vuole la sua gioia ma la sua sofferenza. L’atto invece di credere alla bontà di Dio, al suo meraviglioso progetto sugli uomini, compie proprio quel passaggio per il quale iniziano ad avvenire miracoli, dentro di noi e fuori di noi. La guarigione, infatti, connessa sempre all’ascolto della Parola, è innanzi tutto interiore. L’uomo viene guarito dalle tenebre che attanagliano il suo cuore, ascoltando la Luce che si manifesta nella Parola. In seguito, proprio tale ascolto, guarisce anche il fisico dell’uomo, sia nella visione che la persona ha della malattia, che nella malattia stessa. La preghiera di guarigione è perciò, ancora una volta una grande esperienza di fede nel Volto di Dio rivelatoci in Cristo, Colui che si è caricato le nostre infermità, trasformandole in forza di Resurrezione e di vita.


Questa coscienza conduce perciò Giacomo ad affermare:

14 Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. 15 E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. 16 Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza (Gc 5, 14-16)


Questo passo, che manifesta l’uso sin dai primordi della Chiesa, di un rito appropriato nel caso della presenza di fedeli malati in seno alla comunità (quella che poi sarebbe divenuta “l’unzione degli infermi”), svela anche la verità profonda della malattia, che non è innanzitutto quella fisica, ma quella spirituale. Non c’è nessuno che non sia malato, poiché tutti viviamo nella cancrena del peccato e della morte. Per tale motivo va richiesta la guarigione, per tale motivo, insieme ai fratelli, dobbiamo pregare Dio Padre di donarci la guarigione, ma tale preghiera deve essere vissuta con fede, poiché è proprio la fede che ottiene la guarigione a tutti i livelli.


Quanto affermato non vuol dire che la persona sofferente sia più peccatrice degli altri (anche se tendenzialmente pensiamo che sia così, con il nostro inadeguato metro di giudizio). Il peccato non è cosa solo personale, in qualche modo si propaga gli uni gli altri, manifestandosi in modo sempre diverso. Malattie, scompensi, situazioni di deviazione sono sempre emanazioni del peccato comune (non personale), per questo la guarigione è proprio manifestazione della venuta del Regno in mezzo a noi. Ogni volta che qualcuno si pone in stato di guarigione (poiché la guarigione non è semplicisticamente un atto compiuto, ma un sempre continuo divenire), in realtà sta affermando che il Regno è presente, che nel Nome di Gesù questo Regno avanza, che Gesù stesso è presente in mezzo ai suoi per guarirli e liberarli.


La preghiera di guarigione, come quella di intercessione è perciò sempre un atto di fraternità, è il riconoscimento della propria malattia, per chiedere al Signore la liberazione non solo per se stessi, ma anche per gli altri, anzi soprattutto per gli altri. Non è un caso che i malati siano condotti a Gesù da altri, poiché la fede di tutti nel Medico e Signore, muove la mano stessa di Dio a risollevarsi per liberare dalla malattia e dalla morte e guarire.

giovedì 8 ottobre 2009

La preghiera di intercessione





II Riunione : L'intercessione


La prima forma di preghiera che ci viene rivelata è quella di intercessione. Intercedere non vuol dire porsi tra Dio castigatore e l’uomo, ma farsi compagno dell’uomo dinanzi a Dio. Essa ha delle misure che travalicano i nostri semplici bisogni e si conclude sempre nel riconoscimento della misericordia di Dio. Uno degli esempi che rintracciamo subito nella Scrittura è quello dell’intercessione presso Dio da parte di Abramo:

Allora Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio? 24 Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? 25 Lungi da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». 26 Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città».27 Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere... 28 Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne trovo quarantacinque». 29 Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». 30 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». 31 Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». 32 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci». 33 Poi il Signore, come ebbe finito di parlare con Abramo, se ne andò e Abramo ritornò alla sua abitazione.
(Gn 18, 23-33)

Notiamo innanzitutto alcuni fondamentali passaggi:

1) Abramo si avvicinò al Signore – non è possibile pensare ad alcuna preghiera che non sia fondata su questo “avvicinarsi”, rendersi prossimi a Dio. E’ un mistero molto grande quello che ci viene rivelato: la preghiera è innanzi tutto un accostarci a qualcuno, del quale riconosciamo il potere di servizio e l’ascolto. Frutto questo, del suo accostarsi a noi, del suo porgere a noi il suo Volto di misericordia. Dio vuole essere pregato, poiché la sua giustizia non richiede innanzi tutto la pena, ma l’intercessione, la scoperta cioè della nostra carenza per sovvenire alle carenze degli altri.
2) Abramo riprende più volte la preghiera – è sconcertante la fiducia di Abramo, non nella bontà degli uomini (il numero dei giusti viene mano a mano ridotto), ma nell’ascolto di Dio. Egli si pone dinanzi a Lui con la dignità propria di chi vive una confidenza appassionata e per questo sa di poter ottenere tutto. Tale dignità non nasce dalla coscienza del proprio merito (nessuno è santo dinanzi a Dio), ma proprio dal riconoscimento della propria nullità (“Sono polvere e cenere”). L’umiltà propria dell’atteggiamento di preghiera (ma direi esistenziale) non è perciò una forma di denigrazione di se stessi, ma al contrario l’affermazione realistica di ciò che si è, dinanzi alla Bellezza stessa. Il riconoscimento di sé è all’inizio di qualsiasi vera conversione.
3) Abramo, alla fine della preghiera, ritorna alla propria abitazione – la fine della preghiera non consiste in uno stare, ma sempre in un andare, in un ritornare nel proprio mondo, con la fiducia che Dio compirà la sua opera, secondo la sua parola. In questo allontanarsi, c’è il senso del precedente avvicinarsi. Abramo si presenta dinanzi al Signore, per poi tornare agli uomini per i quali ha intercesso. E’ un movimento continuo.

La preghiera di intercessione, inoltre, riposa sulla certezza che Dio vuole operare secondo misericordia. In questo caso è molto istruttiva la pochezza di Giona, il quale, quando Ninive non viene distrutta, così si lamenta con Dio

Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. 2 Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. 3 Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». 4 Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».5 Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì un riparo di frasche e vi si mise all'ombra in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. 6 Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.7 Ma il giorno dopo, allo spuntar dell'alba, Dio mandò un verme a rodere il ricino e questo si seccò. 8 Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».9 Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!». 10 Ma il Signore gli rispose: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: 11 e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?». (Gi 4, 1-11)

L’uomo tendenzialmente, non ha a cuore il suo prossimo, poiché fonda le sue misurazioni su un’idea errata di giustizia, per la quale alla base di tutto deve esserci la certezza della pena per chi ha errato (in questo viene tradita un’immagine semplicistica anche dell’uomo, decisamente al di sopra delle sue reali possibilità). La giustizia di Dio è invece fondata sulla conoscenza della pochezza dell’uomo, perciò essa, piuttosto che giudicare, pone Dio stesso al posto del peccatore, assumendosene il male. Giona, infine (come spesso ci accade), non è contento della misericordia di Dio, anzi la giudica secondo il suo metro, per questo poi Dio può rispondergli attraverso l’esempio del ricino.

La preghiera di intercessione ha dunque una caratteristica fondamentale: distruggere dall’interno il nostro giudizio. Essa deve cioè allargarsi a dismisura, su coloro che ci stanno intorno, poiché il giudizio sulle azioni, viene rimesso completamente a Dio, il quale, solo, conosce le profondità dei cuori.

Anche nel Nuovo Testamento ritroviamo questa medesima larghezza di orizzonti: Gesù si presenta (ed è) non solo il Volto Misericordioso di Dio manifestato agli uomini, ma il maestro dell’intercessione. Egli si mostra come il fratello, il compagno di ciascun uomo nella sua realtà di gioia e sofferenza. E’ interessante rilevare, però, che l’intercessione di Gesù mostra una caratteristica che dovrebbe essere del cristiano e che rappresenta un significativo passo avanti nella visione di Dio. Nel momento, ad esempio, in cui dà nuova vita a Lazzaro, così egli afferma:

«Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. 42 Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». (Gv 11, 41-42).

Egli, cioè loda il Padre per qualcosa che non è ancora avvenuto, ma del quale ha certezza. L’intercessione per il cristiano è innanzitutto una confessione di fede in Dio, nella sua misericordia, nella sua volontà di volere il bene dell’uomo, senza ma e senza se, con tempi e modalità che certo sono altre rispetto alle nostre, ma che non per questo, lasciano l’uomo a mani vuote. Questo atteggiamento è tanto importante che Gesù stesso lo richiede, proprio nella stessa occasione, a Marta, sorella di Lazzaro:

39 Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni». 40 Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?» (Gv 11, 39-40)

L’intercessione cristiana (ovvero in Cristo Gesù), va oltre le apparenze. Il mondo, in fondo, mostra solo un volto (ed appannato) della realtà. Il Cristo invece richiede al cristiano uno sguardo diverso che non si ferma alla decomposizione delle situazioni, storie, realtà personali che ci troviamo innanzi, ma si volge direttamente alla Gloria di Dio. L’intercessione è insomma una manifestazione della fede, per questo motivo, ogni volta che ci troviamo ad intercedere in realtà ci troviamo esauditi doppiamente: da un lato perché noi stessi veniamo trasformati dall’intercessione (che ci decentra e che è un’opera proprio dello Spirito), dall’altro perché abbiamo la certezza che il Signore opera in quella situazione per la quale stiamo pregando. Per tale motivo tale forma di preghiera è fondata sulla presenza dello Spirito, il Consolatore e sempre su questo raggio è possibile intuire perché la forma di intercessione più rilevante non è quella legata a questa o quella situazione, ma alla presenza stessa dello Spirito in noi, tanto che Gesù può dire:

A chi bussa sarà aperto. 11 Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? 12 O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13 Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11,10-13)

Il Signore non si nasconde l’incapacità dell’uomo non solo di compiere il bene, ma perfino di chiederlo; proprio per questo dona all’uomo un cuore nuovo, nel quale l’agente principale di ogni mozione è lo Spirito stesso, richiesto e donato dal Padre. Il punto però rimane quello espresso prima: la fede che lo Spirito richiesto nell’intercessione è anche certamente donato dal Padre, che vuole darci cose buone, che vuole crearci a sua piena immagine.

La prima preghiera di intercessione è allora proprio quella che riguarda lo Spirito di Dio, dal quale poi riceviamo tutti i doni e soprattutto la fede per credere che Dio opera, anche attraverso la nostra preghiera, di là ed oltre ogni nostra attesa. Ecco allora che ritroviamo qui proprio la presenza di Maria, la quale vive di questa fede profondissima, tanto da dire, anche di fronte ad un apparente diniego del Figlio “Fate quello che Egli vi dirà” (Gv 2,5), ed in questo quasi “costringere” (proprio per la sua fede) il Signore ad operare. Essere cristiani, essere intercessori, vuol dire dunque essere innanzitutto, come Maria, confessori della potenza di Dio che opera, lasciando a Lui le modalità dell’operazione e fidandoci pienamente del suo Amore. In altre parole credere che egli, avendoci dato il suo Figlio e lo Spirito, ci darà ogni altra cosa, dalla più piccola, alla più grande ed inattesa.